CAPITOLO I DODICI

A San Vittore, braccio italiano, venni portato; ad una cella con altri tre venni assegnato.

A SAN VITTORE

A San Vittore, braccio italiano, venni portato;
ad una cella con altri tre venni assegnato.
Uno era, per mercato nero condannato,
pieno di soldi e di vettovaglie, tipo malnato.

Il più interessante era Bauer, psicanalista,
a Nizza arrestato perché comunista,
a Vienna era stato capo della gioventù marxista,
e Lenin aveva conosciuto nel suo paese.
Con lui parlavo lungamente in francese:
era un tipo colto, affabile e cortese.

Bauer a Nizza aveva in riva al mare
una bella villa e le giade amava collezionare.
Quando colà lo arrestarono i militi fascisti,
del “tragico buffon delle Romagne” avanguardisti,
si divertirono a gettarle dalla finestra in mare
irridendo a quei “sassi”, con sprezzante urlare.
Questa era la “imperiale” civiltà fascista
molto prossima a quella “barbarica”, a prima vista.

L’amico Bauer una domenica mattina
in cella si precipita con aria “sbarazzina”:
“Vien voir une scène de cannibalisme intellectuel!”
e così dicendo rideva “á crepapel”.
A pianterreno un prete “serviva” messa
ad una udienza variopinta e dimessa
e distribuiva l’ostia “transustanziata”,
parola dal lontano medioevo tramandata,
di prigionieri presenti a una manciata.
Questa fu una opportuna occasione
per una animata ed amichevole discussione
in cui mi accorsi di una sua buona informazione
teologica, ma non mi fu possibile accertare
se un principio religioso fosse pronto ad accettare.

A pianterreno un prete “serviva” messa ad una udienza variopinta e dimessa

Dopo la liberazione Bauer rimase per un po’ di tempo
in circolazione interessandosi ai problemi
della risorta politica e a molti temi
della discussione culturale rinata nel frattempo,
ma poi misteriosamente scomparve tutto a un tratto
come se risucchiato fosse in un gelo siberiano
o inabissato in un profondo silenzio lubiankano
e a ricercarlo diventai quasi matto
ma la mia ricerca fece scacco.
Il perderlo é stato un gran peccato
dato che in lui un caro amico avea trovato.

I misteri del mondo comunista sono pari
a quelli del cattolicesimo e molto rari
i momenti in cui un reale e veritiero rapporto
con i suoi adepti può essere ritenuto insorto.
Sospetto ed obbedienza sono i lor canoni di vita
assenza di libertà interiore ed esteriore infinita.
Con Bauer in carcere i miei rapporti furon di amicizia,
ma appena fuori misteriosamente di mestizia.

Il terzo socio, Ancillotti, fotografo e toscano
era un attivo resistente repubblicano.
Bauer lo chiamava “Kaiserlisch hoch photograph”
e lui, alto e dinoccolato, rispondeva: “viva la RAF!”

Il nostro raggio era sovrappopolato,
il gruppo dei politici ai comuni mescolato,
ciò costituiva per noi un gran vantaggio
nel caso di irruzione e sparatoria in raggio.
Le celle erano aperte e grande il movimento
e ciò serviva a lenire il tormento.

Il raggio da svariate specie animali era abitato:
di pulci, pidocchi, cimici ognuno era dotato
a da auree scolopendre e vistosi ragni frequentato
ogni riposto angolo di quell’ambiente dannato.

La “sbobba” era fatta con secchi ceci avariati
ripieni di neri coleotteri in essi inglobati:
Bauer con stoico appetito avidamente li divorava,
altri come me, più schizzinoso, non li mangiava.

Il cesso comune era un ludibrio
per entrare occorreva far esercizi d’equilibrio.

In alto nella cella una finestra con grata
lasciava intravedere del cielo una manciata.

I pagliericci, per dormire in terra, erano stretti
e l’uno accanto all’altro parallelamente diretti
sicché di taglio a giacere si era costretti,
l’uno a contatto dell’altro, e guai a russare!
Per girarsi occorreva i vicini preavvisare
per poter movimenti giusti e simultanei effettuare.

Con spessi e rigidi cartoni di antichi registri,
pervenuti, non si sa come, in quei luoghi sinistri,
semplici, pratici ed eleganti scaffali fabbricavo
che ai muri della cella con un sol chiodo applicavo.
I quattro angoli di ogni ripiano foravo,
per essi quattro robusti spaghi passavo,
ciascuno munito di un grosso nodo di supporto
sotto ogni piano a giusta altezza che non fosse storto.
In alto i quattro spaghi uniti in un sol nodo
potevano essere appesi ad un solo chiodo.

Di tali scaffali feci diversi esemplari
che mi venivan richiesti, anche se rari
erano i cartoni a fabbricarli necessari.
Il farli era per me un divertimento
e il regalarli un gradito social evento,
queste ed altre attività riempivan la giornata
dato che in quel “bailamme” la lettura era vietata.
E poi si dice che il carcere é noioso:
in quelle condizioni, direi, é quasi “spassoso”!

Colla mollica di pane si costruivan le dame
e la bianca e nera scacchiera con la scatola del pane.
“Scimmia”, un ladro, della “dama” specialista
teneva banco, dando lezioni a vista.
Sosteneva che in Svizzera si ruba facilmente
a causa della maggior fiducia della gente.

Colla mollica di pane si costruivan le dame e la bianca e nera scacchiera con la scatola del pane

Un comune, puntuale come Kant, alle sei di sera
“voglio morire” urlava dalla ringhiera.

Un vecchio comunista nei grandi cameroni
a un pubblico teneva, sul marxismo, un corso di lezioni.

Un vecchio comunista nei grandi cameroni a un pubblico teneva, sul marxismo, un corso di lezioni

In cella segnavamo su una carta d’europa
con bandierine della guerra le posizion di scopa,
in base alle notizie che “radio-carcere” dava.

Nel raggio avevamo un “comitato di liberazione”
in cui ero il portavoce del partito d’azione.

Del carcere alla ricezione un nostro rappresentante
dei nuovi arrivi ci informava all’istante.

E nel raggio avevamo un “ufficio legale”
che ai nuovi arrivati consigliava il “confessionale”
nel caso di interrogatori troppo insistenti
per non compromettere altri resistenti.

Io ricevevo ogni settimana
centomila lire per fare assistenza umana
viveri e vestiti per i poveretti
che da nessun esterno eran protetti.

Ogni giorno partiva e arrivava la posta
clandestina, a censura non sottoposta.

Il corpo delle guardie era pagato
due volte: da Salò e dal nuovo stato.
Per questo eravamo praticamente
padroni del raggio, e sicuramente.

I guardiani erano semplice comune gente
a cui la nostra situazione non importava niente,
e con noi si comportavano educatamente.
Li trattavamo con rispetto e deferenza
come se tra loro e noi non ci fosse differenza.
Ogni tanto passavam loro qualche rifornimento
e taluno si dimostrava esserne contento
e ciò serviva ad accorciar le distanze
ed a crear con essi amichevoli usanze.

Il lor capo, sergente o maresciallo, non ricordo
era invece un rigido e freddo capitan di bordo:
quando nel raggio, ma raramente, capitava
qualcosa da ridire o modificar trovava.
“Arriva la vi due”, così da noi si chiamava
per analogia con il germanico razzo che quando su Londra arrivava come pazzo
in piedi non lasciava neanche un palazzo.
Ciascuno di noi in cella si ritirava
e a nasconder le geografiche carte si apprestava,
carte che i semplici guardiani conoscevano
ma mai una volta dissero che lo sapevano.

L’importante era non aver intromettenze
dagli altri raggi, tedesche dipendenze
dove regnava una feroce disciplina
germanica Ja, a noi poco vicina.
Un giorno il cane del ital-guardie carcerarie
si avventurò nei cortili delle altre “arie”
e su una bella svastica di fiori
fu attratto a scaricare i suoi umori.
Il “malfattore” fu richiesto immantinente
e fucilato all’istante come “delinquente”:
così disse “radio-carcere” che in genere non mente.

e su una bella svastica di fiori fu attratto a scaricare i suoi umori